Sabato 7 giugno si è svolta la ventesima edizione del Roma Pride, la storica manifestazione che, nello spirito dei moti di Stonewall, ribadisce i valori dell’uguaglianza e della pari dignità di tutti gli individui e reclama a gran voce la necessità di diritti civili per le persone lgbtqi (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer e intersessuali).

In 200.000, secondo le stime degli organizzatori, hanno sfilato per le vie della Capitale, da Piazza della Repubblica a Largo Corrado Ricci, portando per strada le proprie storie, i propri colori, le proprie famiglie. Quest’anno ha preso parte al corteo anche il sindaco Ignazio Marino, che ha sfilato fin quasi alla fine della parata insieme ai quindici presidenti di municipio, tutti con le fasce giallorosse indosso.

Una presenza significativa quella di Marino, giacché era dal lontano 1994, quando l’allora primo cittadino Francesco Rutelli intervenne all’edizione inaugurale, che un sindaco non partecipava ad un Pride. Marino ha promesso la calendarizzazione della delibera sul registro delle unioni civili entro la fine di giugno e ha ribadito la volontà di trascrivere in comune i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso. I fatti, se ci saranno, diranno della veridicità delle sue intenzioni. Tra le altre presenze istituzionali, l’assessore Alessandra Cattoi, il Vice Presidente della Regione Lazio Massimiliano Smeriglio, il Presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, venuto con il compagno Eddy, e il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, oltre a vari deputati e senatori. Nessun esponente di governo.

Per quanto riguarda le associazioni invece, che sono le vere artefici della realizzazione dei pride, oltre alle venti sigle che quest’anno componevano il Coordinamento Roma Pride, tante erano le realtà presenti (non solo laziali), tra le quali anche l’Arci di Roma, che ha sfilato con una propria delegazione.

Matrimonio egualitario, adozioni, diritto a cure gratuite ed efficaci per le persone in hiv, giuste leggi per le persone trans sono le rivendicazioni lanciate dalla comunità lgbt a una politica sorda che, prona al diktat delle gerarchie vaticane e incapace di sollevare lo sguardo da mere strategie di consenso, preferisce ignorare.

Il guanto di sfida è volto soprattutto al Primo Ministro Matteo Renzi, che nella campagna elettorale per le Primarie si era impegnato a legiferare su civil partnership e adozioni entro i primi cento giorni, un periodo che ormai è passato e che segna la sua prima promessa non mantenuta, come tuona dal palco finale Andrea Maccarrone, Portavoce del Coordinamento Roma Pride nonché Presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, da anni in prima linea nella rivendicazione e nella tutela dei diritti lgbt. Molto grave è poi la mancanza nell’attuale governo di un dicastero assegnato alle Pari Opportunità, decisione “che palesa un’assenza di politiche di contrasto alle discriminazioni”, commenta Maccarrone. Altrettanto allarmante è la decisione del Ministro dell’Istruzione Giannini di fermare l’asse educativo di contrasto al bullismo omo/transfobico nelle scuole, delle cui conseguenze tanto tristemente si è sentito parlare negli ultimi anni.

Eppure, nonostante l’immobilismo politico e la lunghezza del cammino ancora da percorrere verso un’autentica parità, il messaggio lanciato dal Roma Pride è forte, assertivo, non lascia posto a rassegnazione e vittimismo. “Dopo tanti anni siamo ancora qui”, grida festosa Leila Daianis, Presidente dell’Associazione Libellula, “e siamo allegri, felici, rispondiamo con una grassa risata a tutto il mondo di destra e bigotto!”.

Possiamo quindi chiederci che cosa sia cambiato in vent’anni di pride. Di prima battuta si potrebbe rispondere niente. Ma, siccome è sempre meglio considerare comunque le proprie realizzazioni e siccome alcuni passi sono stati fatti, ha senso iniziare da lì. Pertanto dirò che la comunità lgbtqi ha, in questi venti anni di lotta, conquistato una visibilità che prima non c’era e, lo sappiamo, quando qualcosa esiste perché afferma il suo nome, allora diventa più difficile ignorarlo.

E infatti, malgrado i cambiamenti siano sempre lenti e graduali, la società civile è più avanzata di ciò che faziosi discorsi ideologici vorrebbero dare ad intendere, perché le cornici entro cui matura e si sviluppa l’affettività tra individui, etero o omosessuali, evolvono, sono anch’esse soggette alla storia, e nella realtà esiste una pluralità di situazioni e di legami di cui la gabbia di una certa rappresentazione idealizzata non può chiaramente rendere giustizia.

Siamo pertanto sicuri che la battaglia per i diritti delle persone omosessuali e transessuali riguardi solo costoro? A mio avviso la risposta è no, perché il diritto all’autodeterminazione, il valore dell’uguaglianza, l’antifascismo, la lotta contro ogni forma di discriminazione e di abuso sono valori universali che costituiscono il fondamento dei diritti umani, e riguardano perciò ciascuno e ciascuna di noi. E soprattutto non sono diritti negoziabili, non devono essere “concessi” ma “garantiti”, come afferma il segretario di Sel Nichi Vendola, perché una società che lascia indietro qualcuno non può definirsi realmente democratica.

E per chi intende ancora farsi garante di oscurantismi e pregiudizi, ci dispiace, una risata vi seppellirà.

Davide Oliva

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