Il 3 ottobre del 2013, al largo delle coste lampedusane, avviene quella che sarà ricordata come la più grave catastrofe marittima nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo: su un barcone salpato dalla Libia che trasportava migranti di origine africana, un terribile incendio, causato dalla caduta di una torcia infuocata in una pozza di gasolio, provoca il naufragio dell’imbarcazione, una tragedia che costerà la vita a 368 persone. 20 sono stati i dispersi presunti, 155 i superstiti salvati.

Si tratta di una strage umanitaria purtroppo non unica nel suo genere, ma di dimensioni tali che ha costretto l’opinione pubblica e la comunità internazionale a riflettere sulle responsabilità dell’Italia e dell’Unione Europea, perché se le persone che fuggono dalla guerra e dalla povertà sono costrette ad attraversare il mare su navi della speranza pagando somme di denaro molto alte per il viaggio, è perché non esiste altro modo legale per entrare in Italia (e da qui raggiungere l’Europa), eccezion fatta per il sistema dei flussi, una lotteria a cui però ben pochi migranti hanno la fortuna di accedere.

L’impatto della tragedia ha portato il Governo Italiano al varo dell’operazione “Mare Nostrum”, finalizzata al potenziamento del dispositivo di controllo dei flussi migratori nel Mar Mediterraneo, e ha spinto l’UE a incrementare le attività di Frontex, l’istituzione comunitaria che ha lo scopo di pattugliare le frontiere degli Stati dell’Unione. Queste azioni purtroppo non si sono svincolate dall’ottica emergenzialista, e parlare di un’emergenza immigrazione nel Mediterraneo quando, stando ai dati forniti dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) nel rapporto “Fatal Journeys: Tracking Lives Lost during Migration” (uno studio effettuato nell’ambito del progetto “Missing Migrants Project”), dal 2000 a oggi sono oltre 22.000 gli uomini, le donne e i bambini che in quel mare hanno perso la vita, ha un sapore fortemente bizzarro e ipocrita.

E se è vero che il simbolico ha una sua importanza nella costruzione del reale, bisogna ricordare che per le vittime della tragedia non sono stati celebrati i funerali di Stato e che la proposta di far riconoscere la data del 3 ottobre quale “Giornata della Memoria e dell’Accoglienza”, avanzata dal Comitato che da quella data prende il nome, non è ancora stata approvata dal Parlamento.

A un anno esatto dall’avvenimento, a Roma, contemporaneamente alla commemorazione che si è tenuta a Lampedusa nell’ambito del Festival Sabir, organizzato dall’Arci Nazionale, a Eutropia, manifestazione estiva promossa da Arci Lazio, si è svolta una cerimonia che ha visto partecipare le donne inserite nel Progetto SPRAR Aida gestito dall’Arci di Roma, con sede a Monterotondo, alcuni volontari del Servizio Civile e i membri dell’équipe del progetto di accoglienza.

Tutti noi abbiamo ricordato le vittime della strage lanciando al cielo delle lanterne volanti e, accanto a questa commemorazione, abbiamo vissuto un momento di convivialità cenando insieme e assistendo al concerto in programma quella sera.

Era molto bello vedere che anche delle donne che vivono la condizione di rifugiate potevano godere di una serata spensierata in mezzo alle tante difficoltà che quotidianamnete affrontano.

Ricordare le vittime di una tragedia del genere non dovrebbe essere un ripiegamento narcisistico, ma la base per agire al fine di interrompere una catena di morte che va avanti da troppo tempo.

Ciononostante l’Italia e i Paesi membri dell’Unione Europea sembrano piuttosto fermi rispetto al tentativo di elaborare delle leggi in materia di immigrazione che non siano punitive e respingenti (vedi il Regolamento di Dublino).

Le realtà del Terzo Settore, tra cui l’Arci, e ampie sezioni del mondo che si occupa a vario titolo dell’accoglienza chiedono altresì l’apertura di canali umanitari per il diritto d’asilo europeo, ovvero l’autorizzazione di percorsi di ingresso ufficiali e sicuri per chi è costretto a lasciare il proprio paese, e il rilascio di un titolo di soggiorno valido in tutta l’UE, sulla base della direttiva comunitaria sulla protezione temporanea in caso di afflusso straordinario di persone in cerca di protezione (Direttiva 2001/55/CE del 20 luglio 2011).

Per chi ce la fa, però, la vita continua. Così, la sera del 3 ottobre a Eutropia, ho avuto la sensazione che accanto al ricordo delle vittime, la presenza delle utenti dello SPRAR avesse il significato di guardare con positività al futuro di chi ancora una possibilità ce l’ha.

Un futuro che, pur con tutte le sue variabili, dovrebbe essere garantito e tutelato a monte a tutti i migranti, sulla base dei principi di mutua solidarietà e del rispetto per la vita umana che legano il nostro vivere comune.

Davide Oliva